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Colloqui israelo-palestinesi: un aggiornamento

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PalestineIsraeliTalks

di Norman Finkelstein e Jamie Stern-Weiner – 23 gennaio 2014

Come ha osservato recentemente il Segretario di Stato John Kerry, siamo a un “punto critico” nella storia del conflitto israelo-palestinese.  In un’intervista a New Left Project in precedenza in questo mese Norman Finkelstein ha presentato un’analisi approfondita su quale direzione stiano prendendo i colloqui israelo-palestinesi mediati da Kerry, la cui essenza era: in assenza di un movimento palestinese resuscitato, gli USA e Israele riusciranno a imporre i termini dell’accordo voluti da Israele a una dirigenza palestinese debole come non mai, infliggendo una sconfitta con tutta probabilità definitiva all’ultradecennale lotta dei palestinesi per l’autodeterminazione.

Mentre la diplomazia accelera il passo e si avvicina un accordo, pubblicheremo aggiornamenti di Finkelstein sulla situazione. Quello seguente è adattato da una conversazione con Jamie Stern-Weiner della NLP.

Ci sono stati, dopo la nostra precedente discussione, tre grossi sviluppi degni di menzione.

(1) L’appetito di Israele è aumentato mangiando

Le cose si sono mosse più o meno come il Segretario di Stato sperava, salvo per il fatto che egli aveva compiuto un errore di calcolo. Come me, Kerry supponeva che se avesse adottato la costante posizione assunta da Israele nel corso dei negoziati del 2008 ad Annapolis, avrebbe avuto in pugno gli israeliani. Non aveva previsto la dinamica in base alla quale a ogni boccone la fame di Israele aumenta. Vedendo quanto debole è l’Autorità Palestinese (AP) e quanto accomodante è Kerry, alcuni israeliani oggi pensano: “Perché non chiedere di più?”

Così hanno avanzato la pretesa di un quarto blocco di insediamenti; hanno chiesto il riconoscimento palestinese di Israele come “stato ebraico”; hanno chiesto l’annessione della Valle del Giordano; nessuno di questi punti era saliente nei negoziati di Annapolis. Ad Annapolis la posizione israeliana sulla Valle del Giordano era esattamente quella che Kerry sta oggi offrendo: la presenza di una forza internazionale mentre dispute tecniche minori, come il controllo dello spettro elettromagnetico, dovevano ancora essere risolte. Ma alcuni israeliani oggi pensano: “Che diamine, abbiamo ottenuto la stanza; perché non chiedere la casa intera?”  

Oltretutto potrebbero aver ragione. I palestinesi sono politicamente così deboli che forse Israele potrebbe davvero ottenere molto di più. Kerry non accetterà di essere preso nuovamente a pesci in faccia dopo la sua umiliazione in occasione della crisi delle armi chimiche siriane. Ci sarà probabilmente un atto di bilanciamento: da un lato Kerry cercherà di incorporare una parte delle accresciute pretese israeliane mentre, dall’altra, gli europei proseguiranno il loro giro di vite su Israele.

(2) In seno a Israele è iniziata la fase della bassa politica

In seno a Israele si stanno allineando diversi gruppi d’interesse e lobby. Un gruppo presentatosi alla ribalta in giorni recenti è quello di quelli che Noam Chomsky chiama i “capitalisti razionali”. Per queste ricchissime élite imprenditoriali “Israele” è soltanto un puntolino sulla mappa. Vogliono creare qualcosa di affine a una Sfera di Co-prosperità del Medio Oriente Allargato, in cui Israele abbia il ruolo del Giappone. Recentemente c’è stato un significativo riavvicinamento tra Israele e l’Arabia Saudita e non passa giorno senza un articolo a proposito di dirigenti israeliani che si recano a una qualche riunione nel Golfo. Questi capitalisti razionali oggi vedono un’opportunità di realizzare le loro ambizioni regionali (persino globali) ponendo fine al conflitto con i palestinesi. Non vogliono che una stupida inezia come la Valle del Giordano intralci la via a un’apertura in Arabia Saudita e nel Golfo.

Ma non andrebbe neppure sottovalutata la posta che molti israeliani hanno messo in gioco in conflitto continuo. Il ministro della difesa Ya’alon, che è una lagna riguardo alla mantenimento israeliano della Valle del Giordano, è un buon esempio. Ya’alon è perfettamente consapevole che la Valle del Giordano ha valore strategico zero. Ma ha un’influenza ingombrante sulla società israeliana, perché è un militare in una società fortemente militarizzata. Se si realizzerà la visione dei capitalisti razionali d’Israele e sarà raggiunto un accordo, la sua influenza sarà in qualche misura ridotta. E così lui ha interesse a mantenere un’atmosfera di conflitto a bassa intensità.

Questo tocca un tema politico più vasto. Secondo me molti fraintendono la politica ritenendola determinata da una motivazione prevalente. Si prenda l’aggressione statunitense contro l’Iraq nel 2003. La domanda comune era allora: “Qual è la motivazione di Bush?” Alcuni dicevano che era il petrolio; altri dicevano che era la lobby israeliana; altri puntavano all’industria degli armamenti. Ma in politica non penso sia giusto cercare una singola ragione decisiva. Quella che c’è, invece, è una convergenza di interessi, la preponderanza della quale pesa sull’uno o sull’altro piatto della bilancia politica. Nel caso dell’Iraq, Karl Rove voleva l’invasione per un meschino obiettivo politico: veder rieletto Bush. La politica ha la propria autonomia; non è semplicemente riducibile a interessi economici. Poi c’erano quelli a favore per il petrolio o che vedevano grandi opportunità di occupare (e ricostruire) l’Iraq.  Poi c’erano quelli che vedevano un’occasione per affermare il potere degli Stati Uniti sul palcoscenico mondiale, o per rimodellare la mappa del Medio Oriente. C’era una convergenza di interessi, la preponderanza della quale ha favorito un attacco. E’ probabilmente vero persino che un elemento psicologico – il tormentato rapporto di Bush con suo padre – abbia avuto una qualche parte nella decisione di attaccare. Pare meschino, ma in politica, se si ha un mucchio di potere, la meschinità può avere un grosso ruolo. L’inseguimento, da parte del presidente palestinese Abbas, di un Nobel e di prendersi una rivincita retrospettiva sullo scomparso presidente dell’OLP Yasser Arafat (che lo aveva umiliato) sono probabilmente fattori che entrano nei suoi calcoli.  

In Israele oggi, i vari gruppi d’interesse si stanno allineando da una parte o dall’altra. Così i capitalisti razionali e i politici centristi come Tzipi Livni favoriscono un accordo, mentre i tifosi degli insediamenti, gli ideologi sionisti ed elementi della dirigenza militare vi si oppongono. Poi ci sono persone come il primo ministro Netanyahu e il ministro degli esteri Lieberman per le quali si tratta principalmente di un problema politico. Netanyahu vuole restare al potere e Lieberman vuole succedergli, così devono equilibrare i gruppi d’interesse in competizione e stare attenti a non offendere Washington.

(3) I palestinesi restano un fattore nullo

Il terzo fattore è degno di nota per la sua assenza: i palestinesi. I palestinesi sanno di essere sotto un rullo compressore. Nell’intera copertura mediatica oggi sono sostanzialmente una nota a piè di pagina. Arafat era solito fare la spola da una capitale araba a una europea ogni volta che si sviluppava una crisi. Percorreva più miglia aeree di Henry Kissinger. Oggi abbiamo la disperata dirigenza palestinese che si muove freneticamente, ma verso dove? Verso il Comitato Al Quds. Ma, Dio buono!, qualcuno ha mai sentito parlare del Comitato Al Quds? E’ una claque di ottuagenari che si trastullano tutto il giorno con i loro tè e i loro narghilè. Ora siamo informati che Abbas è diretto in Russia. Come se in questo momento a Putin gliene fregasse qualcosa della Palestina. Per la prima volta da quando è emersa un secolo fa, la questione palestinese è stata ridotta alla sua inconsistente dimensione geografica: una lotta “provinciale”. Odio ripetere quell’abominevole cliché, ma se Arafat fu una tragedia, questa è una farsa al cubo. E’ molto indicativo che il braccio destro di Abbas, Saeb Erekat, consideri il giornalista di Ha’aretz jack Khoury un alleato migliore che non il popolo palestinese. Egli sussurra nelle orecchie di Ha’aretz per dar sfogo alle doglianze palestinesi. Ma il popolo palestinese? Nulla. E da tutte le indicazioni, al popolo non interessa.

I poli del dibattito sono ora stabiliti in, a un estremo, la proposta Kerry (essenzialmente la posizione israeliana ad Annapolis) e, all’altro estremo, in quelli che in seno a Israele non vogliono rinunciare a nulla. La posizione palestinese è svanita dal dibattito. I palestinesi protesteranno quando il rullo compressore passerà loro addosso, e a quel punto tutti diranno: “State ancora parlando dei blocchi degli insediamenti? E’ una questione già risolta.” E i palestinesi a quel punto risulteranno essere i rompiscatole.

 

Tirate le somme, qual è il risultato di questi tre fattori? Un accordo quadro sarà raggiunto a breve. Altrimenti Tzipi Livni e Yitzchak Molcho non si sarebbero recati a Washington; adesso sono impegnati nei dettagli. I palestinesi devono recarvisi la prossima settimana, quando saranno comunicati loro gli ordini di partenza.

La dirigenza palestinese continuerà a esibire il suo solito misto di stupidità e disperazione. In Israele proseguirà la bassa politica. Come accaduto in Sudafrica negli anni ’80, i capitalisti razionali si separeranno dagli ideologi ferventi. I blocchi d’interessi si cristallizzeranno e probabilmente ci saranno delle elezioni. La mia ipotesi è che vinceranno quelli a favore della fine del conflitto.

Alcuni sostenitori della campagna per il Boicottaggio, i Disinvestimenti e le Sanzioni (BDS) interpreteranno come una loro vittoria il recente isterismo in Israele a proposito di un boicottaggio internazionale. Nella politica israeliana, come detto, i diversi gruppi d’interesse si stanno schierando: i coloni per conservare tutti i loro insediamenti (non solo i maggiori blocchi di insediamenti in cui risiede l’85% dei coloni), i capitalisti razionali a causa delle loro ambizioni regionali (e globali), l’apparato dell’esercito per il prestigio e le prerogative nazionali, e nessuno a causa dei BDS. Questi miliardari israeliani non sono preoccupati per il voto di un’Associazione Americana degli Studi. Non sono preoccupati nemmeno dal boicottaggio UE dei prodotti degli insediamenti; le loro ambizioni sono superiori a quelle di una fabbrica di apriscatole ad Ariel. Non battono ciglio per i BDS, usano i BDS per mobilitare il sostegno del pubblico alla loro meschina agenda. I BDS sono un fattore significativo quanto lo è il Comitato Al Quds.

Norman Finkelstein è autore di ‘Knowing Too Much: Why the American Jewish Romance with Israel is Coming to an End’ [Sapere troppo: perché la storia d’amore tra gli ebrei statunitensi e Israele sta finendo] (OR Books, 2012) e, con Mouin Rabbani, di ‘How to Solve the Israel-Palestine Conflict’ [Come risolvere il conflitto israelo-palestinese]  (OR Books, in corso di pubblicazione).

Jamie Stern-Weiner è codirettore del New Left Project.

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.newleftproject.org/index.php/site/article_comments/israeli_palestinian_talks_an_update

Originale: New Left Project

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2014 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0


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